La Via del Carbone

Sono arrivata a Pechino il primo settembre del 1995... quell'arrivo resta un ricordo indelebile nella mia mente: il rapporto tra spazio, tempo ed odori si riassumeva in un’esperienza del tutto illusoria...

Di notte un'atmosfera densa e nebbiosa avvolgeva le strade alberate e malamente illuminate. Le luci dei fari investivano gli alberi che improvvisamente avanzavano con fare marziale, simile a quello delle squadre di militari, in fila per due, che spesso si incrociavano. Non un lampione illuminava la strada. Solo le luci al neon delle case, segmenti freddi ed allineati, permettevano di intuire le facciate dei palazzi. Pochissime macchine circolavano tra i viali del quartiere «elegante» delle ambasciate. Mi sentivo costantemente immersa in uno strano odore. Quello stesso odore che ci accolse all'aeroporto: un odore acre misto di ossido di carbonio e disinfettanti primitivi. Ho cominciato a seguire quell'odore e, in modo del tutto naturale, mi sono trovata sulla mia «via del carbone»: una strada che ho percorso e ripercorso a più riprese durante tutto il mio periodo pechinese. E anche più tardi.

I primi tempi guardavo e scoprivo. Scoprivo che il carbone in città era onnipresente: lungo le strade principali, ammassato negli angoli dei templi, accatastato all'interno dei Si hua yuan, le case tradizionali dai cortili quadrati, lungo gli Hutong, gli stretti vicoli della vecchia città, nelle scale dei nuovi condominii, dentro i ristoranti, per la strada accanto i punti di ristoro all'aperto.

Poi ho cominciato a fotografare. Era come essere entrata in un un tunnel nero. Una galleria priva di uscita. Un tunnel simile a quello che percorrevo quando aprivo i miei libri di cinese o mi infilavo le cuffie per apprendere i toni e i suoni necessari a riconoscere le parole di quella lingua così lontana dalla nostra il cui apprendimento, non passando dalla lettura, risulta del tutto astratto. La scrittura poi è riconducibile ad un disegno. Una grafia che si può sviluppare solo con regole ben precise: i caratteri si scrivono componendo dei tratti che vanno dall'alto verso il basso, da sinistra verso destra e così via. Ho così scoperto che l'ordine è un concetto fondamentale della cultura cinese: ogni cosa ha il suo posto, ogni persona ha il suo ruolo così come la struttura urbana della città tradizionale è regolata da una precisa geometria. Nell'ordine geometrico urbano le mattonelle di carbone vengono impilate e ricoperte da plastiche o cartoni di vario tipo.

Non riuscivo a privarmi dall'entrare dentro i vicoli, dentro le corti per cercare le mattonelle di carbone e parlare con la gente, sempre disponibile e curiosa verso una straniera che cercava di mettere goffamente in pratica i pochi rudimenti di cinese appresi. Gli abitanti di quei luoghi accoglievano con grande stupore il mio interesse per il loro carbone. In un certo senso anch'io ero stupita da me stessa: l'odore portava il mio sguardo verso il carbone, quell'odore muoveva un sentimento a me del tutto sconosciuto.

Quando poi ho cominciato a percorrere la strada che porta da Pechino verso Datong, nella provincia dello Shanxi grande centro di produzione di carbone, mi sembrava di aver intrapreso un viaggio nello stupore. A volte gli sguardi che avevo su di me mi facevano sentire come qualcuno che avanza a passi incerti su una superficie scivolosa. Cosa cercava una straniera, o forse uno straniero, da quelle parti? Dico «forse uno straniero» perché spesso venivo identificata come uomo. Mi sono sentita attratta dalla curiosità e dalla semplicità dei cinesi. In Cina può capitare di essere accucciata nell'ultimo dei buchi, di un bagno pubblico per le donne, normalmente privi di divisori tra loro, e sentirti osservata dalla vicina, anch'essa nella medesima posizione per svolgere la stessa attività, che naturalmente incuriosita domanda: «È molto diverso da voi?».

Lungo la strada che collega Pechino con Datong si è sviluppata una particolare economia favorita dal transito dei numerosi camion pieni di carbone: mercati improvvisati, stazioni di servizio, ristoranti all'aperto, hotel, postriboli. I camionisti si fermano volentieri, si attardano davanti ad un biliardo posto in mezzo alla strada o davanti ad un barattolino in vetro, che spesso mi veniva offerto, pieno di acqua calda dove poche foglie di the si depositano sul fondo. La mia macchina fotografica era una specie di filtro che cercavo di usare in modo discreto per poter cogliere quell'atmosfera.

Poi sono entrata nelle miniere. Soprattutto in quelle piccole. Ho conosciuto i minatori, che possono essere anche molto giovani. Sono entrata nelle loro semplici case, formate da un'unica stanza dove spesso abita anche l'asino. Lo Shanxi e' una regione dal clima molto secco. Può fare anche molto freddo. I vapori densi provocati dal mio respiro a volte appannavano il mirino della mia macchina, la mia visione era spesso sfuocata, appannata come quella di un sogno. Quando c'è vento, poi, il cielo è limpidissimo, la luce è bellissima e il carbone vola come sabbia nel deserto ricoprendo con la sua polvere nera e grassa i corpi e le cose. Intorno a me faccie nere, mani nere. Solo alla sera mi accorgevo che anche il mio viso e le mie mani erano nere come quelle che avevo incontrato durante tutta la giornata.

Dalla prima volta che sono arrivata a Pechino, la città è enormemente cambiata. La modernizzazione avanza senza sosta. Oggi l’immagine della città è completamente diversa: il traffico è intenso, le biciclette in numero decisamente minore, si vedono anche delle biciclette elettriche. Gli autobus adesso sono verdi e gialli. Quelli vecchi, bianche a strisce rosse, sono spariti quasi del tutto dalle vie del centro; viaggiano soprattutto nei percorsi periferici.

Quando sono ritornata, nel 2002, ho trovato un aeroporto moderno, asettico, qualsiasi, ma l'odore resta. Arrivando ho chiuso gli occhi e quello stesso odore rimandava la mia mente a quell'aeroporto elementare che era: si scendeva a piedi dall'aereo, si camminava sulla pista, si entrava lungo stretti corridoi pavimentati con graniglia e cemento; le pareti color verde ospedale.

Arrivando in città ho provato un profondo senso di spaesamento: adesso imponenti arterie tagliano la città da est a ovest, da nord a sud. Non riconoscevo i luoghi. Solo più tardi ho capito che a confondermi era piuttosto l'assurda idea che gli elementi architettonici urbani scomparsi non si potessero più ricordare di me, del mio passaggio in quel luogo: non potessero più ricordare ciò che io stessa avevo dimenticato.

Sono ritornata nello Shanxi, sulle orme del mio carbone. Sono entrata nelle piccole miniere che si aggrappano alle pareti polverose dei canyon che penetrano in profondità perpendicolari alla strada maestra. Sugli spiazzali sovrastanti, attorno alle piccole miniere, i piccoli villaggi dei minatori. La cosa più stupefacente in quei luoghi, e di cui a tutt'oggi non riesco ancora a capacitarmi, fu per me sin dall'inizio il loro vuoto. Se già il senso d'abbandono che regnava nei villaggi, costruiti secondo il classico schema geometrico, era oltremisura deprimente, ancor più lo era l'aspetto delle facciate delle case, dietro le cui finestre tutto era immobile. Non riuscivo ad immaginare chi potesse vivere in quelle desolate costruzioni, benché, d'altra parte, si trovassero nei cortili interni un gran numero di bidoni per la cenere ed oggetti di vario tipo, segni di presenza.

Ma la cosa ancor più stupefacente, in qualsiasi desolato villaggio mi trovassi, era riconoscere l'evidenza dei simboli della cultura cinese: l'arco memoriale, spesso in plastica o in ferro, che accoglie il visitatore; le scritte di buon auspicio attaccate ai lati delle porte; le pietre, scolpite anche in modo rudimentale, raffiguranti i più strani animali; un busto di Mao Tze Dong, che rimanda al mito degli antenati, al centro su uno scaffale accanto alle ceneri di qualche parente; la ricorrenza di oggetti cifrati e numerati secondo regole fisse.

La notte, che tenessi gli occhi aperti oppure chiusi, continuavo a vedere le immagini di quei luoghi: i mattoni polverosi delle case, le vetrine dei punti di ventita, le prospettive dei vicoli nel mio mirino, i portoni chiusi, la polvere di carbone tra le pietre del selciato, i mucchi di carbone davanti alle porte.

Per quanto io possa risalire indietro col mio pensiero, mi sono spesso sentita come priva di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto, e mai questa sensazione è stata così forte quanto durante i miei viaggi in quei territori, lungo la mia «via del carbone».

Patrizia Bonanzinga

The Road To Coal
© foto Patrizia Bonanzinga
Tutti i diritti riservati
All rights reserved

Published by Hopefulmonster editore,
Torino, Italy, 2004

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