Bogdan Konopka

Quella di Bogdan Konopka è una storia affascinante che ci riporta alle vicende della Polonia del dopo guerra. Nasce nel 1953 nel piccolo villagio materno non lontano dalla città di Breslavia capitale storica della Slesia, una regione che si trova ai confini dell'attuale Polonia che prima del 1945 era territorio detesco. Attualmente la popolazione di Breslavia è quasi interamente composta da polacchi affluiti da Leopoli e da Vilna a sostituire i tedeschi espulsi, ma allora più di cinquecentomila tedeschi abitavano ancora la città uscita quasi interamente distrutta dal conflitto.

E' sul ricordo delle rovine e sulle immagini delle case abbandonate dai tedeschi che si forma lo sguardo di Bogdan che a ventitre anni comincia a fotografare ed ad interrogarsi sulla sua identità e su quella dei suoi concittadini. Decide poi di specializzarsi e frequenta corsi specifici di sviluppo della pellicola fotografica. Si addentra nel trattamento chimico della pellicola. E' in quel periodo che incontra un fotografo che lavora con una 9x12cm e che stampa a contatto. Quell'incontro è decisivo: abbandona la vecchia 24x36mm, una copia sovietica della Leica, e passa al medio formato.

I problemi politici non tardano ad arrivare: il suo lavoro mette a nudo in modo troppo evidente le contraddizioni sociali del periodo. A trentasei anni lascia la Polonia e si stabilisce in Francia dove trova un vecchio e sgangherato banco ottico che ripara da solo e comincia ad intraprendere quella che sarà la sua strada: si isola sotto il panno nero che copre il banco e cerca di cogliere l'atmosfera del luogo. I suoi soggetti sono sempre legati alla sua ispirazione iniziale: è attratto dai luoghi solitari e cerca di captarne lo spirito. La sua è una fotografia di concentrazione e di riflessione. Bogdan sente una spinta spirituale, una fede astratta, che gli permette di fare. La fase di ripresa può essere anche molto lunga, come quella della stampa che pratica lui stesso senza alcun uso di maschere o filtri perché stampa il suo lavoro rigorosamente a contatto. Il risultato è denso di particolari, un'immagine dolce che rimanda un'atmosfera molto singolare priva di bianchi e di neri, solo sfumature comprese tra i grigi chiari e i grigi scuri che la carta baritata Foma ben rappresenta. Piccoli ritratti, ripresi per lo più in assenza di sole e dunque di ombre, di luoghi vuoti, sospesi che sembrano non esistere. Marciapiedi, cortili, strade svelano quel mondo come in una fantastica miniatura e per leggerlo bisogna avvicinare l'occhio, avere una relazione più intima con la fotografia. Se c'è qualcosa di spettacolare nelle sue fotografie è proprio quel rimarchevole senso che lo porta ad evitare ciò che è spettacolare. Viene in mente Italo Calvino con le sue «Città Invisibili» dove si deduce che le città sono troppo reali per essere vere.

Bogdan Konopka non ama fotografare a colori perché ritiene che il lavoro di un fotografo deve essere personalizzato in tutte le fasi della creazione, dalla ripresa alla stampa. La pellicola colore ha delle tonalità che sono equilibrate dalla casa di produzione e viene sviluppata da qualcun altro a temperature fisse. Il bianconero ha temperature di sviluppo più flessibili e il fotografo può scegliere quella che meglio si adatta ai suoi scopi.

Nella sua lunga carriera ha avuto molte mostre personali e collettive e molti lavori su commissione che sono quelli a cui tiene di più in quanto permettono di fissare il tempo, la storia dei luoghi. Con il suo straordinario potere documentaristico, la fotografia permette di classificare il patrimonio di un Paese. Un patrimonio che potrebbe essere distrutto o modificato nel corso del tempo e di cui non resta traccia.

Il porfolio che qui pubblichiamo è un estratto del suo ultimo lavoro sulla Cina. Bogdan Konopka è arrivato in Cina per la prima volta nel 2003. E' stato un amore a prima vista sia per la relazione con quei luoghi sottoposti a cambiamenti repentini, sia per la relazione che vive con la popolazione. La curiosità dei cinesi è tale da rendere ogni ripresa un avvenimento: capannelli di gente si radunano sul luogo e lunghe file si formano dietro al banco ottico per guardare a turno cosa accade lì dentro una volta ricoperti dal panno nero, una magia, una favola che ancora una volta Bogdan ci racconta.

Patrizia Bonanzinga
aprile 2006