John Patrick Naugthon

La storia americana dei Naughton comincia da Ellis Island. Di origine irlandese, la famiglia di John Patrick Naughton sbarca insieme ad altre centinaia di migliaia nella piccola-grande isola di fronte a Manhattan. Era lì che si svolgevano le lunghe procedure di «accoglienza» necessarie ad entrare nel territorio americano. La famiglia di John Patrick ha partecipato, insieme a tutte le altre, al più grande fenomeno di immigrazione che si è consumato sul nostro pianeta dalla fine dell'ottocento fino ai primi decenni del novecento. Molto tempo dopo quell'episodio, in una città della Pensilvania dove la famiglia si era stabilita, è nato John. Ma la sua formazione si realizza a Pittsburg dove studia e si laurea, nel 1972, all'Accademia di Belle Arti.

Dopo gli studi, come molti statunitensi che amano l'arte, si trasferisce a New York, dove attualmente ancora vive e lavora. Vince diversi premi tra i quali, nel 1974, quello offertogli dal prestigioso International Centre of Photography di New York.

Da subito, sceglie come strumento espressivo quello della fotografia: è curioso e attratto dalla gente che osserva con attenzione ed interesse costruendo, in più di vent'anni di lavoro, un ricchissimo archivio di ritratti di artisti: da Andy Warhol a Serge Levy, da Donovan a Philip Glass, da Nan Goldin a Cornell Capa...

Naughton è, dunque, soprattutto un ritrattista. Seguendo questo filone di indagine, ha vinto diversi premi: «Lives of the Artists» nel 2003 ottiene il premio della JPMorgan-Chase; «Seeing America», sempre nel 2003, è stato possibile con la collaborazione del «Council on the Arts & Humanities» di Staten Island, con il supporto di finanziamenti pubblici dal Dipartimento degli Affari Culturali di New York e con la sponsorizzazione del Alice House Museum. «Seeing America» è una sorta di saggio fotografico composto da una collezione di ritratti ed interviste dove i soggetti sono fotografati nelle loro case o nei loro posti di lavoro, tutti luoghi che si trovano a Staten Island. Tutti i soggetti fotografati sono immigrati negli Stati Uniti e le interviste proposte dal fotografo non sono state elaborate, ma trascritte secondo il linguaggio e le espressioni dei singoli: una galleria di ritratti accompagnati dalle storie della loro di vita.

Vi troviamo persone che vengono dal Togo, dalla Serbia, dalla Palestina, dal Bangladesh, dal Cile, dalla Cina... Le interviste rivelano i punti di vista personali di tutta questa gente sottolineando le speranze, le paure e i sogni riposti nella loro nuova vita americana. L'attuale clima politico statunitense ha reso piuttosto complicato questo progetto, verso il quale quasi il venticinque per cento dei soggetti contattati ha successivamente cancellato l'intervista per paura di essere in qualche modo schedato. Ma lo spirito con il quale il fotografo ha intrapreso questo lungo lavoro è ben altro. La speranza di John è quella di aver creato una sequenza di vite ordinarie che possa ricordare a tutti gli americani la forza con la quale i loro antenati hanno fatto fronte forse alle stesse difficoltà, diventando più tolleranti e meno rigidi. Sebbene questo progetto sia stato realizzato in una comunità in qualche modo «chiusa», quella appunto che vive e lavora a Staten Island, il risultato è una sorta di microcosmo dell'America di oggi, che l'autore vorrebbe più comprensiva e tollerante verso le nuove culture e le loro identità.

Il premio più «doloroso» che gli è stato riconosciuto, nel 2002 dalla Buena Vista University, è sicuramente quello per il suo portfolio «Eleven of September». L'ironia della sorte ha voluto fargli vivere quella tragedia da un'ottima prospettiva, fotograficamente parlando: dalle finestre della sua casa di Staten Island, l'isola di fronte alle due torri gemelle. Per due lunghi anni non ha mai abbandonato il progetto tornando quotidianamente, quasi ossessivamente, su quel luogo.

Personalmente, ho conosciuto John Patrick Naugthon proprio a causa dell'undici di settembre, quando colpita ed incredula, come probabilmente molti fotografi, mi sono recata a New York per cogliere e tentare di capire cosa era successo. In quel periodo neworkese sono tornata a più riprese a ground zero, qualche volta anche con John che non mancava di portarmi là dove le inquadrature erano più «fortunate» o di raccontarmi quei terribili giorni immersi nella polvere e nell'odore della morte.

Il nostro primo incontro si è svolto sulle scale del Metropolitan Museum e, poiché non ci conoscevamo personalmente, mi ha dato come segno di riconoscimento la sua altezza: «Sono molto alto, quasi un vatusso», mi ha detto ridendo. E' così che ho conosciuto il gigante Naugthon. Scopro poi, che mi aveva dato appuntamento lì perché voleva portarmi a vedere una personale di Irvin Penn, in quel momento in mostra nel museo. Inutile dire che la mostra di Penn era molto bella: nudi in bianconero di corpi «normali» bassi, grassi, lisci, giovani e vecchi. L'attenzione che John mostrava nel guardare quelle stampe mi ha molto colpita: conosceva molto bene il lavoro di Penn e ne sapeva cogliere qualsiasi sfumatura. Così ho scoperto che anche lui fotografava il nudo e che vi si dedicava sviluppando il lavoro con un profondo spessore culturale.

Il portfolio che qui presentiamo è una serie di nudi che John Patrick Naugthon ha chiamato «Nude-Poems», che potremmo liberamente tradurre come «Poesie Nude». Credo che questa traduzione ben si adatti al contenuto delle fotografie, da lui stesso stampate su carta baritata in rigoroso bianconero, che mostrano donne il cui corpo nudo su sfondo nero sembra brillare di luce propria. Anche questi sono corpi di vecchie, di giovani, belle e brutte, grasse e magre. Corpi che potrebbero essere quello della nostra vicina di casa, quello della fruttivendola o dell'insegnate di nostro figlio.

Corpi che si oppongono alla visione comune: patinata, ammiccante, liscia, ma soprattutto giovane, che le immagini di oggi ci forniscono del corpo della donna, senza soluzione di continuità, eliminando qualsiasi speranza di poter accettare che il tempo passa per tutte. E per rendere ancora più significativa l'immagine del corpo femminile che l'autore vuole trasmettere tramite le sue modelle, il corpo diventa il supporto per una sorta di scrittura, piuttosto per un simbolismo, che vuole richiamare le poesie che lui stesso ha scritto pensando a quello scatto.

Il progetto «Nude Poems» nasce dalla necessità dell'autore di coniugare in un unico lavoro poesie e fotografie di nudo femminile. Naugthon ha iniziato a scrivere poesie durante l'adolescenza, ma all'epoca teneva segreta questa sua attitudine in quanto i suoi coetanei del Midwest, dove allora viveva, la consideravano soprattutto un'attività «da femmina». Finalmente adulto, ha deciso di realizzare la sua idea volendo, inoltre, dipingere il corpo della modella con dei segni che secondo lui richiamavano direttamente la poesia associata.

Molto divertente è stato per me ascoltare questa esperienza: alcune modelle, sapendo che dovevano essere in qualche modo «scritte», si mettevano a ridere e non prendevano sul serio il set; altre si immedesimavano subito nell'azione; tutte entravano nell'atmosfera dopo aver letto le poesie prima della ripresa. Durante la ripresa l'autore domandava alla modella di immedesimarsi nel testo che aveva letto e nei simboli che lui le aveva impresso sul corpo nudo.

Tutte le poesie scritte hanno a che fare con un'esperienza che il fotografo ha realmente vissuto. La poesia «The Conversation» tratta di due persone che si parlano da undici anni e non ricordano quasi nulla di quello che si sono detti; «Round Eye's» è stata ispirata da una fotografia apparsa sul quotidiano «The New York Times»; non era una bella fotografia, ma i grandi occhi neri di una bambina bosniaca circondata dalle rovine della guerra esprimevano una totale perdita di innocenza che ha toccato la sensibilità dell'autore; «As the Painting on the Wall» vuole esprimere il senso di perdita che si prova quando un lavoro artistico si è concluso; «A White Mask» è ispirata dal senso che in quel momento l'autore attribuiva alla morte; «The Innocence» nasce dall'esperienza interiore di Naugthon verso il disastro dell'undici settebre 2001: la perdita a livello universale della vita.

Patrizia Bonanzinga
giugno 2004