Massimiliano Fusari

E' la curiosità verso la gente che spinge Massimiliano Fusari ad impugnare la sua Leica M6 e a percorrere le strade del mondo. La sua è la curiosità dell'antropologo che osserva e si pone domande. Il suo percorso si snoda tra le vie dei paesi islamici: dalla Libia al pakistan, dall'Iran all'Afghanistan. Classe '72, cresciuto nel nord-est della nostra penisola, dove tra le altre cose c'è un'alta concentrazione di emigrati, si forma all'orientale di Venezia con la discussione di una tesi sui Taliban, aggregazione a quei tempi ancora poco diffusa dai media, e si specializza a Londra ottenendo un master presso la prestigiosa SOAS (School of Oriental and African Studies).

Massimiliano Fusari è figlio dei nostri tempi, la sua è la prima generazione a vivere sul proprio territorio una reale coabitazione con culture differenti in cui il confronto con tradizioni molto diverse diventa quotidiano. Per Fusari è naturale porsi delle domande alle quali non vuole dare risposte precise; il suo obiettivo è generare dei dubbi. Per questo il Medio-Oriente diventa il suo territorio di ricerca: viaggia, incontra, comunica con la gente e cerca di trasferire le sue esperienze su pellicola. Il suo è un lavoro di reportage istintivo: il suo racconto è chiaramente concentrato sulla storia che vuole raccontare.

È dunque un fotoreporter Massimiliano Fusari che prende come modello i membri storici della Magnum, Henri Cartier-Bresson in testa. Nell'immaginario collettivo l'immagine del fotoreporter è spesso legata ad una figura mitica, mito sicuramente alimentato dalla biografia, a dir poco movimentata, di alcuni famosi fotografi o dalle condizioni di vita e di lavoro in cui è inevitabile che si possa trovare. Tuttavia fare reportage non significa doversi trovare esclusivamente in prima linea, significa soprattutto essere in grado di esprimersi al meglio per raccontare in modo esaustivo le proprie storie: storie di vita quotidiana, di cronaca, di attualità ed altro ancora. Il fotoreporter si differenzia poi tramite un proprio stile che lo caratterizza facendolo diventare «riconoscibile»: inquadrature complete od incomplete, piani paralleli che organizzano la composizione, orizzonti inclinati, uso dello sfuocato o della nitidezza, schelta della profondità di campo, chiarezza espositiva. Il valore dello stile di un reportage si basa poi sulla sua natura estetica, che fa soprattutto riferimento alle qualità visive della fotografia e alla sua efficacia nel trasmettere il messaggio tramite le tecniche proprie della ripresa e della stampa, senza tralasciare l'aspetto più giornalistico che permette di evidenziare la notizia, scopo ultimo del reportage stesso. Infantti, se da una parte la fotografia è diventata, al di là del proprio contenuto, icona indispensabile per i quotidiani e i periodici, dall'altra la notizia che essa comunica può esistere solo all'interno di un linguaggio che la riconosca come degna di nota. Per uscire da questa bivalenza si deve andare oltre l'ingenuità di considerare la fotografia come semplice trascrizione della realtà e considerarla piuttosto come un filtro, il cui effetto deformato ci permette di creare il nostro punto di osservazione. Così noi non guardiamo solo ciò che in essa appare: la fotografia ci permette di capire il nostro modo di guardare.

Massimiliano Fusari segue le sue regole e compone immagini esatte che fanno andare oltre la propria rappresentazione. Al cuore del suo interesse l'indagine sulla cultura religiosa. Sviluppa questo tema sia in Italia che altrove cercando di tener presente il tessuto sociale di ciascun Paese. Così le immagini sulla iconografia iraniana si affiancano a quelle delle elezioni politiche degli esuli afgani in Iran, del novembre del 2004, o a quelle sulla commemorazione della Ashura, un rito consumato dalla minoranza sciita in Pakistan che consiste nell'auto-flagellazione collettiva per espiare la colpa di aver abbandonato il nipote del Profeta atrocemente ucciso. Il suo lavoro, intellettualmente onesto, si interessa ai comportamenti delle minoranze a come si raggruppano le collettività intorno ad un evento, cerca di esprimere il sentimento collettivo che cresce tramite l'autosuggestione, pur all'interno le regole stabilite dal rito stesso, seguendo forse un pensiero di Jim Harrison: «Non esiste la verità, ci sono solo le storie».

Patrizia Bonanzinga
febbraio 2006