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«I viaggiatori si riconoscono perché, messaggeri d'aria come sono, lì dove arrivano smuovono l'aria. Nature ossigenate e ossigenanti, fanno dono di sé completamente; poi vanno via senza lasciare traccia. Con persone così (una specie rara, più di quel che si pensi) ci si sente liberi. Proprio come accade ai nomadi, non succederà mai di avvertire il peso imbrigliante del legame». Trovo così appuntato su un mio vecchio taccuino questo pensiero di Lisa Ginzburg: la calligrafia incerta mi fa pensare che ero sicuramente in viaggio da qualche parte. Chissà su quale articolo di giornale questa riflessione è stata mai pubblicata, ma la trascrivo qui perché credo che questo sia un pensiero esatto ad introdurre il lavoro di Orit Drori.
Nata nel deserto israeliano, Orit possiede un'innata natura nomade: accompagnata dalla sua macchina fotografica, viaggia per le strade del mondo con la leggerezza del vento. La prima cosa che mi dice nel nostro primo incontro al Museo di Roma in Trastevere, davanti alle fotografie della sua mostra «Burma: between us remember me always» (presentata nel circuito di FotoGrafia 2008, festival internazionale di Roma) è che per lei il viaggio non è meno importante della fotografia.
Questo viaggio in Birmania, o Myanmar (traduzione inglese Burma, come la giunta lo ha rinominato nel giugno '89) comincia per lei nel 2004 e non è ancora concluso, sebbene ne abbia già fatti 7 di lunghi viaggi. Torna e ritorna a solcare le strade di quei luoghi dove gli incontri, anche casuali, formano un sottile filo conduttore, ciò che le permette di tessere il suo racconto. Orit vuole entrare in quella realtà capirne le forme e conoscerne il passato.
Una civiltà, quella del Myanmar, il cui inizio si può far risalire al 1044 AC quando la prima dinastia Bagan dà inizio al buddismo Theravada. Il re Bagan fa costruire un'immensa città e centinaia di pagode e monasteri lungo il maestoso fiume Irrawaddy, che attraversa il Paese da nord a sud. E' questa considerata l'«era d'oro» del Paese. Con l'ultima dinastia reale, quella dei Konbaung che inizia nel 1752, finisce un ciclo: nel 1824 la Gran Bretagna comincia la sua colonizzazione. Nel 1885 i britannici sono padroni di tutto il territorio birmano, dove rimangono ben insediati fino al 1948.
Quella che segue è storia moderna, quella che vede il Generale Aung San combattere per l'indipendenza del Paese e scrivere la carta costituzionale. Molti conflitti tra gruppi di varie etnie si susseguono dopo l'assassinio del Generale Aung San che non riuscirà mai a vedere applicata quella carta costituzionale. Il 1962, con il colpo di stato organizzato dal Generale Ne Win, segna l'inizio della dittatura che ancora oggi, dopo quarantasei anni, controlla severamente il Paese.
E' questa storia che Orit vuole raccontare, quella di un Paese che vive da quarantasei anni in un regime totalitario assoluto. Le fotografie in mostra, scattate su pellicola 35mm, nel profondo bianconero dello stampatore Roberto Properzi, sono solo trenta: una piccola selezione su un insieme più ampio che non vuole descrivere un percorso esatto, ma solo trasmettere il senso del suo viaggiare.
Orit entra ed esce da quella realtà seguendo il suo istinto e le persone che l'accompagnano. Gli incontri sono per lei fondamentali, segnano un percorso intimo e personale che dura nel tempo. La macchina fotografica diventa un filtro del tutto naturale, quasi trasparente. Questa sua capacità di entrare nella vita degli altri le permette di non giudicare nessuno e di non evidenziare con arroganza gli aspetti negativi. Il suo non è un lavoro di denuncia, ma piuttosto un racconto di vita quotidiana consumata da vittime e dai loro carnefici.
Il suo occhio è sempre mobile e, come quello del viaggiatore, è in grado di fissare ritagli di realtà tramite pure e lucide visioni: l'evidente accidentalità del viaggiare è rivolta a cogliere la piena singolarità di una sola particella tra tutto ciò che vede, senza altre prerogative. Le sue inquadrature cercano degli elementi separatori: l'ombra di un filo che divide il corpo di un bambino, una crepa di uno specchio che divide il viso di una donna, la trama sottile di un velo sfuocato in primo piano che divide la scena di una veglia funebre. Le sue inquadrature cercano anche di spiazzare la reale prospettiva: il corpo sdraiato di un transessuale, che nello scatto sembra essere in posizione verticale; i corpi affaticati sdraiati su una barca, che si mischiano e si confondono tra i mille oggetti trasportati.
Orit è affascinata dal teatro itinerante del gruppo An Nyeint Pwa che incontra casualmente lungo il suo viaggio e che decide di seguire per otto interi giorni. Il gruppo viene chiamato anche per i funerali e quelli per i monaci diventano delle vere e proprie feste che durano tre giorni. Si organizzano cortei, opere teatrali con canti e balli che aprono alle sei del pomeriggio e chiudono alle sei del mattino seguente. Il corpo del monaco defunto, portato per qualche tempo sul palcoscenico, diventa anche lui uno dei protagonisti: la sua presenza permette di dare un ruolo attivo alla morte che in tal modo diventa vita. E' forse questo il messaggio che più mi ha colpito e che credo meglio descriva il senso del lavoro di Orit Drori sul Myanmar: quello di un popolo che cerca la riscossa della vita anche attraverso la morte.
Patrizia Bonanzinga
agosto 2008
Fotografia Reflex
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