Paolo Pellegrin

«Ma non c'è dubbio che quelli laggiù sono bambini morti, e quella è sicuramente la sezione di una casa. Una bomba ne ha squarciato il fianco; in quello che doveva essere il salotto è ancora appesa la gabbietta per gli uccelli...» così Susan Sontag in «Davanti al Dolore degli Altri» cita Virginia Woolf riprendendo, tra gli altri, questo suo brano tratto dal libro «Le Tre Ghinee» in cui la scrittrice mette a confronto il suo sguardo, su una serie di fotografie di guerra, con quello di un sedicente avvocato che la invita a riflettere sull'ingiustizia e sulle barbarie dei conflitti.

Queste osservazioni di Virginia Woolf sono del 1936 e le fotografie, oggetto del vivace dialogo tra lei e l'avvocato, ritraggono la guerra civile in Spagna che, grazie all'introduzione della Leica, fu la prima ad essere documentata dai fotoreporter. Così le scene drammatiche, per la maggior parte statiche secondo uno stile epico, documentazione fotografica della prima guerra mondiale, lasciano spazio a scene di azioni più autentiche, riprese dai fotoreporter finalmente liberi di muoversi sul campo di battaglia.

Oggi, lo sviluppo delle nuove tecnologie ci ha permesso di divenire testimoni, quasi in tempo reale, delle calamità che affliggono il mondo: realtà abusate di paesi lontani convivono con la nostra tranquilla quotidianità, esperienza questa relativamente recente. Grazie al lavoro di molti fotoreporter oggi non possiamo sottrarci alle rivelazioni visive che molte immagini di conflitti fanno arrivare in modo immediato al cervello, insediandosi nei meandri più profondi della nostra memoria.

Paolo Pellegrin, nato a Roma nel '64 da una famiglia di architetti, è attualmente uno dei più autorevoli fotoreporter attivo sulla scena mondiale del fotogiornalismo. Per tradizione familiare, in modo del tutto naturale, il suo percorso inizia tra i banchi della facoltà di architettura, ma al terzo anno abbandona capendo che quello studio non era di suo interesse. Comincia a cercare un'altra strada quella che gli permette di esprimere la sua sensibilità, necessità che sente essere in lui molto presente. Questa ricerca lo conduce ad iscriversi ad un corso di fotografia, che frequenta per un anno. L'incontro è avvenuto.

A 23 anni comincia un percorso duro e faticoso, di circa nove anni, che lui stesso definisce di «clausura auto-imposta»: è free-lance, lavora come assistente, passa molte ore in camera oscura per diventare completamente padrone del mezzo e del mestiere di fotografo. Lavora senza sosta, con serietà ed ostinazione ed i primi riconoscimenti non tardano ad arrivare. Nel 1995 vince il World Press Photo per il suo lavoro sull'AIDS in Uganda, e questo è solo il primo degli otto che ha vinto fino ad oggi; nel 2001 il premio Leica Medal of Excellence; nel 2004 l'Olivier Rebbot for Best Feature Photography; nel 2006 l'Eugene Smith Grant in Humanistic Photography; ed infine, nell'aprile del 2007, vince il prestigioso Robert Capa Gold Metal per il coraggio dimostrato in Libano durante gli scontri dell'estate scorsa. Paolo Pellegrin vive tra Roma e New York, dal 2000 collabora regolarmente con il «Newsweek» e con il «New York Times» magazine, nel 2001 viene nominato alla agenzia Magnum, nel 2003 diviene associato e nel 2005 membro effettivo.

Riassunta così in poche righe, la sua ricchissima biografia mi sembra non coincida con la sua delicata persona: alto, con un viso dolce contornato da riccioli scuri, occhi mobili dietro a piccoli occhiali, sembra quasi difendersi dal suo lavoro che descrive in modo semplice senza alcuna gravità presuntuosa.

La sua ultima mostra, «Broken Landscape» al Museo di Roma in Trastevere fino al 9 settembre, è una sorta di riassunto della sua produzione dal 1995 ad oggi. Curata da Giuseppe Prode, la mostra, composta da 110 stampe digitali di ottima qualità create da Davide Di Gianni su carta Hahnemuhle satinata 100% cotone, è considerata dal suo autore una vera e propria sfida, ma anche un'occasione per fare il punto della situazione. Dalla Bosnia all'Afghanistan, dalla Liberia al Darfur, dalla Palestina all'Iraq, e via dicendo per 16 paesi, il tentativo è quello di toccare, con omogeneità di percorso, gli stessi tasti e toni per dare vita ad un'unica voce. Il difficile sforzo vuole produrre una voce in grado di sintonizzare, e mettere sullo stesso piano, i diversi livelli che compongono i conflitti, l'esodo dei profughi, i terremoti, le pandemie e la povertà. L'obiettivo è raccontare, in modo profondo, storie umane, piccole o grandi che siano, perché al centro di tutte queste storie c'è sempre l'uomo. Paolo Pellegrin cerca di evidenziare, lavorando sul suo vasto archivio, quei temi ricorrenti, privi di confini geografici, che lasciano traumi solo apparentemente invisibili, quelle cicatrici che riportano al passato, ma che sono anche presagi di speranze future. Paolo Pellegrin è un vero fotogiornalista sempre presente nella cronaca, ma il suo modo di fotografare, senza nulla togliere alla pura documentazione, gli permette di trascrivere gli eventi in modo assolutamente non letterario. Torna spesso sugli stessi territori, cerca di capire e di legare i temi per costruire dei veri e propri progetti.

Là dove è possibile, cerca di entrare in contatto con i suoi soggetti. Cerca una comunicazione discreta e rispettosa. Personalmente, credo che la fotografia scattata nel Darfur, di un ragazzo che ha le gambe ingessate in modo assurdo, riassuma in modo corretto il suo criterio di confronto con il soggetto che incontra, con l'altro da sé, con colui che diventa un riflesso diretto di sé stesso. Era in macchina, quando ha visto quel ragazzo strisciare sulla strada. Paolo Pellegrin racconta che ci sono vari scatti di questa scena, ma solo in uno il ragazzo guarda in macchina: il suo è uno sguardo pudico, ma presente a sé stesso, dove emerge la dignità della propria persona. Poi l'ha soccorso e accompagnato al più vicino ospedale.

L'obiettivo di ogni linguaggio formale, e la fotografia ne fa parte, è permettere la comunicazione di un contenuto. Soprattutto in fotografia, la relazione tra forma e contenuto è molto complessa: la forma è in generale dinamica, a causa del suo continuo dialogo con la realtà esterna, e il tempo aggiunge una delicata relatività ad ogni forma. Il lavoro di Paolo Pellegrin ci porta a riflettere perché ci mette di fronte ad una incongruenza visiva: apprezziamo come formalmente bello un contenuto che, di fatto, non possiede nulla di bello. In realtà, ad una analisi più attenta, ci accorgiamo che il bello che noi vediamo non è altro che l'emozione che il fotografo ci trasmette, quella che lui stesso ha vissuto cercando di spogliarsi emotivamente «davanti al dolore degli altri».

Patrizia Bonanzinga
agosto 2007

Fotografia Reflex