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Le fotografie di Patrick Zachmann sono fotografie scattate con uno sguardo limpido ed esatto. Nel guardarle tutto sembra essere definito: la posizione dei soggetti, la nitidezza della scelta iperfocale, l'abilità di saper cogliere la luce. Tutto sembra naturale, quasi troppo normale. Eppure tale normalità nasconde qualcosa che attira, che non ci permette di distogliere lo sguardo. Continuiamo a guardare e l'occhio circola attratto dalla scena che abbiamo di fronte. Ci accorgiamo che incominciamo ad interrogarci. E' forse questo il lato più forte, almeno per me, del suo lavoro: non trovare soluzioni, ma forse solo domande.
E lui si interroga da tempo. Patrick Zachmann, classe '55, ebreo francese di una famiglia di origine polacca, all'età di tredici anni aveva già deciso che sarebbe diventato fotografo. Un lontano zio, che aveva un negozio di fotografia in Algeria, aveva portato con sé, nel suo bagaglio di esiliato al momento dell'indipendenza di quel Paese, un vecchio ingranditore Imperator ed una macchina fotografica 6x6. E' proprio in quel periodo che comincia a frequentare un club fotografico «I 30x40» dove si discute della vita e del lavoro dei grandi fotografi. Affascinato da quel mondo, accompagnato da una vecchia macchina fotografica russa Zenith E, comincia a guardarsi intorno attraverso l'obiettivo e poi si eclissa in una camera oscura improvvisata in una cantina. La passione lo conquista: dopo il liceo decide di abbandonare gli studi, lavora come commesso alla FNAC, successivamente in un laboratorio e comincia ad avere le prime commesse come fotografo su siti industriali. Utilizza le sue ferie per produrre i suoi primi reportage personali come freelance: nel '75 è in Portogallo al momento della «Rivoluzione di Luglio», nel '77 in Israele al momento dei primi insediamenti ebrei in Cisgiordania. Incontra un gruppo di fotografi che avevano appena creato l'agenzia di stampa Rush dove resta sette anni. Questa esperienza gli offre una formazione al fotogiornalismo verso il quale si sente attirato, ma mai completamente identificato. A partire dagli anni '80 comincia le sue prime ricerche fotografiche e si concentra su un singolare progetto alla ricerca della propria identità di ebreo scettico e dubbioso che verrà pubblicato solo nel 1987 con il titolo «Enquête d'identité. Un juif à la recherche de sa mémoire» (Inchiesta di identità: un ebreo alla ricerca della propria identità; edizioni Contrejour). Si dedica a questo lungo e complicato lavoro introspettivo sulla propria memoria e su quella della sua famiglia che può essere assimilato ad un lavoro psicoanalitico piuttosto che fotogiornalistico. Un modo di prendere posizione rispetto alla fotografia, ma soprattutto un modo di arrivare ad una migliore conoscenza di sé stesso prima di parlare degli altri. Infatti, come parlare, mostrare «l'Altro» da sé, con una giusta distanza e con uno sguardo che non sia né di ingenua compiacenza né di soddisfatta compassione, ma neanche di rifiuto o di odio? Come trovare il giusto equilibrio senza prescindere da sé stessi? Zachmann associa il lavoro del fotografo a quello dello psicoanalista che prima di svolgere la professione deve esso stesso fare l'esperienza psicoanalitica.
Inoltre, per fotografare il mondo, e quindi l'Altro, bisogna essere coscienti della violenza del mondo che è davanti all'obiettivo, ma anche della violenza che il fotografo stesso impone sull'Altro. L'atto del fotografare è un atto aggressivo in sé: è un atto rapido, istantaneo, malizioso, sornione, egoista, ipocrita e anche se quest'atto è proposto con dolcezza, comprensione e discrezione la gente fotografata, coloro che Henri Cartier Bresson definiva «le vittime consenzienti», al momento dello scatto può reagire in modo anche aggressivo. Patrick Zachmann spesso si sente impotente a giustificare questo atto e soprattutto a superare questa contraddizione perché certe immagini devono essere prese durante l'azione e nella più assoluta spontaneità, impossibile domandare il permesso di fotografare con il rischio di perdere l'istante o il momento di interesse specifico. Contraddizioni difficili da superare che spesso lo hanno portato all'auto-censura.
Con il saggio fotografico «Madonna!» realizzato a Napoli nel 1982 e apparso nel 1983 (Edizioni Etoile — Les Cahiers du cinéma) l'autore riflette su una triplice violenza: quella della camorra, quella della polizia e la sua, quella del fotografo. Il suo obiettivo è quello di dimostrare che si possono creare fotografie meno dirette, meno semplicistiche della violenza, qualche volta più complesse, come spesso è la realtà, e più distaccate, come dovrebbe essere il trattamento dell'informazione.
Patrick Zachmann entra a far parte dell'agenzia Magnum nel 1985. Secondo le regole dell'organizzazione diventa associato nel 1987 ed infine membro nel 1990. Durante questi lunghi anni l'agenzia è molto cambiata: si è ingrandita, ha diverse sedi nel mondo, è diventata un'impresa. L'età media dei fotografi di Magnum si è considerevolmente abbassata e si può dire che attualmente una nuova generazione di fotografi è sul mercato internazionale e che la fotografia prodotta all'interno dell'agenzia riflette le diverse tendenze attuali anche se tutti i fotografi hanno un approccio comune nel descrivere il mondo nella sua complessità attraverso soprattutto gli uomini e le donne che lo abitano.
La scelta del soggetto, o piùesattamente dei soggetti di ricerca, è essenziale. Zachmann è capace di passare anni sullo stesso lavoro. Sette sull'identità ebrea, otto sulla diaspora cinese. Il periodo di «gestazione» può essere anch'esso lungo e doloroso, ma quando finalmente il progetto prende forma questo risponde sempre ad una imperiosa necessità. Necessità di comprendere, di esplorare nuovi territori, di testimoniare, di trovare nuove forme di espressione fotografica.
Dopo la realizzazione del libro sull'identità, come abbiamo detto un lungo lavoro su sé stesso, Patrick Zachmann ha avuto l'impressione di essersi riconciliato con sé stesso, con la sua famiglia e con la Francia, che aveva deportato i suoi nonni ad Auschwitz. Si rende conto che ha bisogno di cambiare aria, di scoprire nuovi orizzonti e anche culture differenti. Ma in effetti la sua ossessione non lo lascia perché tutti i viaggi verso terre che sentiamo culturalmente distanti, e verso gente fisicamente diversa da noi, sono in realtà viaggi alla ricerca di noi stessi, della nostra identità. Tanto più forte è il nostro senso di appartenenza ad una cultura, tanto più grande appare ai nostri occhi l'impenetrabilità dell'altra cultura. Così la scelta di lavorare sulla sconfinata diaspora cinese va ancora una volta nella stessa direzione. Tale scelta ha dunque molti punti in comune con il precedente lavoro: i cinesi come gli ebrei sono dispersi in tutto il mondo, come gli ebrei sono molto attaccati ai valori della famiglia, alle tradizioni, alla riuscita sociale (trasmessa ai loro figli con ostinazione) e come gli ebrei sono stati vittime di molteplici devastazioni. La comunità cinese è senza dubbio la più ermetica di tutte, ma questa difficoltà è per lui fonte di stimolo piuttosto che di resa. Estremamente codificata, costruita su strette gerarchie, rispettosa delle regole fissate, la societàcinese genera tensioni. In termini visivi, l'autore è attirato dalla tensione che si nasconde sotto un sorriso di convenienza o in un gesto che sembra essere di cortesia. Una ricerca anche estetica che forse ha origine dalla scoperta dei film muti in bianconero girati a Shanghai negli anni '30. Film espressionisti dove le storie si svolgono tra fumosi bar, fumerie d'oppio e postriboli.
Durante otto anni con ossessiva ostinatezza ha visitato quattordici Paesi, attraversato decine di città , incontrato un'infinità di persone e scattato decine di migliaia di fotografie. Il risultato è un libro dal titolo «W. ou l'œil d'un long nez» (W. o l'occhio di un naso lungo), di cui qui pubblichiamo qualche scatto, complesso ed affascinante che racconta, insieme ai significativi testi, una storia di viaggio impossibile quanto necessaria. Un'analisi enorme divisa in due parti: la realtà colorata delle chinatown nel mondo, che per lui sono solo la facciata, un falso scopo, che ha l'obiettivo di nascondere quello vero, quello più segreto, sotterraneo, quello in bianconero. Un'analisi vasta che conduce in un altro territorio dove non si trovano risposte, ma forse solo domande.
Patrizia Bonanzinga
luglio 2006
Fotografia Reflex
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