Roberto Salbitani

«Ho vissuto alla Giudecca, il sottile lembo di terra prospiciente il centro storico, per 12 anni, tra gli anni Settanta e Ottanta. In quel periodo ho percorso e fotografato la città su palafitte, ma ho avuto il pressante desiderio di stampare quei negativi solo quando ne ho sentito una forte nostalgia, cioè negli anni Novanta. E l'ho fatto nel modo e nel formato che qui vedete. Venezia è per me una specie di iceberg circolare. Non mi interessa l'aragosta che emerge, ma il granchio scuro e umido che sta sotto: la sua vera essenza. La mia Venezia è dunque nelle sue porte murate, ma soprattutto nei suoi fondali scuri, là sotto dove ristagnano i corpi, i legni, le visioni.»

Ho conosciuto Roberto Salbitani nel novembre 2001. Un'amica comune ci aveva messi in contatto telefonico. Abbiamo fissato un appuntamento davanti alla Feltrinelli di Largo Argentina a Roma, e poiché non ci eravamo mai visti prima c'eravamo dati come segno di riconoscimento i colori delle nostre sciarpe. «Porto una sciarpa nera» mi disse, «Io in questo momento ne indosso una tutta colorata» fu la mia risposta. Fatto sta che passammo un bel po' di tempo davanti alle vetrine della Feltrinelli senza riconoscerci. E quando timidamente mi avvicinai ad un signore dai lunghi capelli bianchi, dagli occhi chiari e luminosi credendo di aver individuato, tra le pieghe del giubbotto, una sciarpa nera quel signore subito disse della mia sciarpa, che vistosamente indossavo, «Credi veramente che la tua sciarpa sia molto colorata?».

La sua osservazione, così diretta ed immediata, ci ha fatto subito entrare nel merito del nostro discorso: la soggettività del vedere, la percezione e la rappresentazione della realtà. Così è cominciato tra noi un discorso sulla fotografia che sarà sempre lontano da una possibile conclusione.

Roberto Salbitani fotografa dal 1971. Una vita immersa non solo nelle sue immagini: è anche critico, organizzatore di archivi storici, di mostre, di incontri sulla fotografia ed anche insegnante. Nel 1986 ha fondato la sua Scuola di Fotografia nella natura che svolge le sue attività nei dintorni di Siena proponendo stage di varia natura e genere.

 

intervista

Roberto, come nasce il tuo rapporto con la fotografia?
Come tanti, da bambino ero attratto più dalle figure che dalle parole. A sentire i miei, stavo ore e ore a guardare immagini, i capolavori dell'arte riprodotti nei libri di scuola. Taciturno e tutto preso nel mio mondo fantastico, volavo dentro le vite degli artisti, soprattutto di quelli che a Parigi avevano condotto una vita di avventure e libertà. La fotografia è arrivata un po' più tardi, attorno ai primi anni Settanta quando ho cominciato a viaggiare. Era giunto il momento di dare forma alle mie fantasie che potevo trovare solo nella realtà con cui volevo confrontarmi. Così la fotografia è diventata un mezzo espressivo globale che ha trasformato la mia vita permettendomi di individuare percorsi esplorativi sempre nuovi.

Con successo e delusioni?
Quello che per me rappresenta il successo, è riuscire ad acquisire uno stato d'animo che dia autenticità alle relazioni che si intrattengono, alle cose che si fanno. Le delusioni, invece, riguardano proprio l'idea del successo, quello canonico, che crea competizioni assurde, che distrae e che, a volte, rappresenta un ostacolo al lavoro vero e proprio.

Ciò detto, in questi ultimi anni in Italia la fotografia è diventata più visibile al grande pubblico. Cosa ne pensi?
La fotografia di qualità occupa più spazi istituzionali d'un tempo, ma ancora mancano i collegamenti intelligenti e la piena accettazione della sua potenzialità artistica. Mi riferisco agli addetti all'arte contemporanea (leggi: pittura) ed al mondo letterario e cinematografico ai più alti livelli. Ma non compiangiamoci: incassiamo quello che abbiamo seminato in passato! Tutti noi oggi possiamo fare qualcosa di più: ad esempio, proponendo i grandi lavori fotografici a chi si estasia davanti ad un Wahrol, ma non ha mai sentito nominare Eugene Smith o Minor White. Ma poi ci sono tanti autori italiani che non sono abbastanza valorizzati.

Hai fondato la Scuola di fotografia nella natura tanti anni fa. Cosa ti ha spinto a fondare una scuola come questa?
Ci sono scuole pubbliche e private che hanno programmi annuali, poi ci sono festival o rassegne fotografiche all'interno delle quali dei fotografi tengono dei corsi rivolti ad un largo pubblico di appassionati di fotografia. Nel mio caso si tratta di corsi e stage che durano da due a quattro giorni indirizzati a quegli appassionati che vogliono chiarirsi le idee, crescere in senso espressivo e tecnico, due cose che vanno assieme! Si fa esperienza, si confrontano le idee, si indicano soluzioni concrete rispetto alle immagini già fatte per migliorarle, o a quelle che si desidera realizzare in futuro.

Non è così per tutte?
La mia scuola è nata dalla constatazione che i manuali di fotografia non bastano, nè sono sufficienti i corsi di base o le serate di diapositive proposte dai fotoclub e nei piccoli festival attivi in Italia. La mia filosofia è quella di cercare di indicare la strada per arrivare a realizzare dei progetti personali che arrivino ad esprimere davvero la propria sensibilità e le proprie idee. Però, prima delle soluzioni tecniche è necessario fare delle scelte sul contenuto del lavoro. E quello che cerco di fare è di creare le condizioni per cui i partecipanti ai corsi possano acquisire fiducia nelle proprie possibilità. A giudicare da ciò che ho raccolto in vent'anni devo dire che ho assistito alla crescita di progetti fotografici di ogni tipo, sempre affascinanti e con poche clonazioni lungo il cammino.

Cosa si aspetta chi frequenta una scuola come la tua?
Di partecipanti ai corsi ce ne sono di tutti i tipi. Molti pagano per vivere l'atmosfera festivaliera o l'eccitazione competitiva che circonda molti degli appuntamenti: vogliono conoscere da vicino i «nomi» e sperano in una valutazione positiva delle loro immagini. Una minoranza, invece, sceglie di fare esperienza (anche se di informazione obiettiva ce n'è davvero poca) e vuole capire ciò che è davvero utile da apprendere per superare gli ostacoli e crescere. Da noi si iscrivono principianti, allievi di scuole di fotografia e d'arte, fotoamatori evoluti, professionisti. La prima cosa che proponiamo sono corsi relativi al ritratto, al paesaggio o al territorio. E qui si lavora su ripresa, sviluppo, provinatura, stampa, fino ad arrivare alla valutazione finale dei risultati. Gli altri seguono corsi più approfonditi dove si sviluppano temi che ruotano intorno alla luce, alla costruzione di un lavoro fotografico, alla fotografia in viaggio o alla stampa avanzata del bianco e nero, quella che io definisco «luceombra».

E quindi...
... si aspettano di capire cosa sta dietro ad una serie di fotografie dal forte impatto comunicativo. Una volta presa coscienza delle variabili in gioco, il partecipante non può che salire, un gradino alla volta, per non tornare più sulle debolezze precedenti.

In qual modo?
Chiedendosi come interpretare il soggetto che ti sta davanti oppure come visualizzarlo tenendo conto degli elementi primari che si vogliono imporre all'attenzione. E, poi, come scegliere tra gli infiniti punti di vista quello più idoneo in relazione agli strumenti, al tipo di soggetto, alla qualità della luce. Alla fine, ci si chiede quale tipo di stampa scegliere. Insomma, parliamo dei quesiti di sempre, ma che, lo stesso, devono essere trattati al di là delle suggestioni e delle illusioni.

Ritieni che negli ultimi tempi sia cambiato l'approccio dei partecipanti ai corsi?
Per quel che mi riguarda vedo sempre meno persone che hanno un interesse casuale o un hobby puramente decorativo e sempre più persone determinate a penetrare i modi e le tecniche della scrittura fotografica, anche a costo di rendersi conto che il cammino è più lungo di quanto inizialmente si pensi.

Alla conclusione dei corsi, che valutazioni fai sui risultati?
Il metro di valutazione si basa sulle immagini realizzate nel corso in rapporto alle intenzioni originarie, ma c'è da dire che gli scatti ottenuti durante questa breve esperienza sono solo indicativi. L'insegnante deve avere abbastanza intuizione e penetrazione psicologica per vedervi quello che non è ancora pienamente evidenziato. Solo così potrà rendersi conto dell'inclinazione particolare, del tipo di interesse che ha il suo allievo e cercare di suggerirgli un percorso, un modo di impostare concretamente il suo progetto fotografico.

Patrizia Bonanzinga
ottobre 2003